di Claudio Mancusi
Le qualità dominanti di Alessandro adulto, che Plutarco sottolinea nella sua biografia “Vite Parallelele” tra la fine del I sec. e l’inizio del II sec. d.C., sono in larga parte quelle che già si sono rivelate nel ragazzo e nell’adolescente: in primo luogo temperanza(dal greco: enkrateia), alto sentire(dal greco: megalopsiuchia)e generosità(dal greco: filantropia); sono doti basilari del carattere del Macedone, che lo accompagneranno per tutto l’arco della vita e che solo in rari momenti gli verranno meno, in concomitanza con fatti del tutto particolari e che rivestono carattere di eccezionalità.
Quella sanità spirituale che i Greci indicano con il termine sofrosiune e che si manifesta in un autocontrollo, che è base dell’equilibrio in ogni campo, è a giudizio di Plutarco la dote che merita maggiore lode in Alessandro; è una dote che spicca soprattutto nel comportamento che il Macedone assume nei riguardi delle donne. L’episodio di Timoclea, della cui storicità non si dubita, i rapporti instaurati con le donne di Dario cadute in prigionia, rapporti di grande, reciproco rispetto e comprensione, il matrimonio con Rossane, l’unica donna della quale veramente il re si innamorò, hanno chiara funzione paradigmatica a questo proposito. Se si deve credere a Plutarco, e non pare ci sia motivo per non credergli, Alessandro era temperatissimo con le donne perché riteneva che questa dovesse essere la vera dote di un re: quando fece prigioniere con la moglie di Dario III di Persia anche la madre e le due figlie che erano bellissime, fu nei loro riguardi di estrema correttezza “ritenendo che a un re si addicesse vincere se stesso più che i nemici”; non che egli fosse insensibile alla bellezza femminile, anzi “diceva scherzando che le Persiane erano un tormento per gli occhi, ma contrapponendo alla loro bellezza il valore della sua temperanza e saggezza, passava davanti a loro come ad inanimate statue di marmo”.
Per queste specifiche informazioni Plutarco si rifà a precisa testimonianza di Alessandro che in una letterascriveva:”Non si potrebbe dimostrare non solo che io abbia guardato la moglie di Dario, o che abbia voluto guardarla, ma neppure che io abbia voluto ascoltare le parole di chi mi parlava della sua bellezza”.
Analogo senso di misura viene riconosciuto al Macedone nei momenti nei quali egli veniva a parlare della sua creduta origine divina; questo però soltanto quando aveva a che fare con i Greci, ai quali “dichiarava la sua divinità con molta moderazione e cautela”; quando invece ne parlava ai barbari ostentava un atteggiamento superbo, quasi fosse assolutamente persuaso della sua origine sovrumana. Tutto ciò nasceva evidentemente da un calcolo politico che suggeriva atteggiamenti diversi in relazione alla diversa psicologia di coloro cui era destinato il messaggio.
Quanto all’alto sentire: quell’amore di grandi imprese e di gloria che sentiva da giovane, quando diceva di non voler gareggiare ad Olimpia se non avendo avversari dei re, o quando non dissimulava il suo vivo disappunto sentendo annunciare le vittorie di Filippo, perché temeva che il padre non gli lasciasse spazio per “compiere qualche grossa, luminosa impresa”, rimane uno dei motivi conduttori della sua vita. Esso si rivela innanzitutto e soprattutto nell’ampiezza dei disegni che concepì quando ancora era giovane, e che poi costantemente perseguì con una ostinata tenacia alimentata da un ardore inesausto: non si tratta soltanto dell’impresa meditata contro Dario, o della volontà, usuale nei monarchi, di spostare sempre più innanzi i confini del proprio impero; la sua megalopsiuchia si rivela nel disegno che egli si propone di realizzare con la fusione dei due popoli sui quali regna, il greco e il persiano, avvicinando il loro modo di vivere con la benevolenza e non già con la forza, convinto che solo in tal modo l’opera sarà duratura. Va vista in questa prospettiva la decisione assunta di istruire nella lingua e nelle lettere greche, oltre che nell’uso delle armi macedoni, trentamila giovani persiani, primo nucleo del futuro popolo.
Ma la grandezza d’animo non si evidenzia soltanto nelle grandi concezioni ideali: quando si scende dall’ideazione alla concretezza dell’agire questa dote ha largo campo per manifestarsi: così Alessandro ne dà prova nell’incontro con il saggio re Tassile, vincendolo in generosità, o con il re Poro che, vinto in battaglia e fatto prigioniero, dimostra nella mutata condizione tale altezza di sentire e rispetto di sé che è superato solo dall’azione del Macedone. E poi la stessa dote, sotto forma di impetuosa volontà d’agire, emerge nel comportamento quotidiano, e può talora estrinsecarsi in azioni di eccezionale coraggio, tanto da sembrare avventate, come alla battaglia del Granico, o nella decisione di recarsi a consultare l’oracolo di Ammone nonostante le difficoltà appaiano insormontabili:”il grande coraggio che egli poneva nelle sue azioni rendeva poi invincibile la sua ambizione”, o ancora nell’attacco della rocca di Sisimitro, o dinanzi alla città di Misa, o nell’azione contro i Malli. Questo esporsi in prima persona, questo affrontare i rischi e talora addirittura provocarli, non era soltanto un modo per mettere se stesso alla prova, ma tendeva anche a spingere gli altri alla virtù.
“Egli, era per natura generosissimo, ancor più si abbandonò e generosità quando le sue ricchezze aumentarono; anche quella amabilità con la quale sola, veramente, chi dà ottiene riconoscenza”. Questo, della filantropia, è, con il tema della pietas,il motivo su cui il biografo insiste maggiormente, e ad esso si riferiscono alcuni degli episodi divenuti poi meritatamente famosi nella letteratura degli exempla.
All’inizio della spedizione contro i Persiani, nonostante le risorse su cui poteva contare non fossero proprio tali da dargli garanzie assolute di successo, Alessandro diede prova di grande generosità verso gli amici donando loro la maggior parte dei suoi possessi in Macedonia. Fu una distribuzione cui ne seguirono sistematicamente altre, in concomitanza con successi riportati o anche indipendentemente da essi, perché era nella natura del Macedone manifestare, quando le circostanze lo permettevano, la sua generosità. Certo l’insistere su politica poteva essere controproducente, almeno a giudizio di Olimpiade, che più volte mise sull’avviso il figlio, preoccupata della solitudine che, in ultima analisi, egli andava creando attorno a sé. Così infatti ella gli scrisse:”Cerca di fare del bene ai tuoi amici e di renderli famosi in altro modo; ora infatti tu li rendi simili a re, e procuri loro molte amicizie, ma rendi te stesso solo”.
D’altro canto la filantropiadi Alessandro meglio si evidenzia in altri momenti, con altro modo di agire che non sia il semplice distribuir ricchezze e proprietà: è ad esempio il caso drammatico occorso in Cilicia, quando Alessandro in gravissimo pericolo di vita viene salvato da una pozione del medico Filippo che pure una lettera di Parmenione, inviata al Macedone, accusava di tramare ai danni del re. Plutarco descrive con ogni cura l’episodio, abilmente graduandone la drammaticità, fino a dare al tutto un che di teatrale, come egli stesso afferma:”fu spettacolo mirabile e degno di un teatro: l’uno leggeva, l’altro beveva; poi si guardarono in viso, ma non allo stesso modo: Alessandro con il volto sereno e disteso manifestava benevolenza e fiducia per Filippo; questi a sua volta era fuor di sé per la calunnia e ora invocava gli dei e alzava le mani al cielo, ora si piegava sul letto e invitava Alessandro a farsi coraggio e a fidarsi di lui”. Comprendiamo bene perché questo episodio è poi entrato nelle antologie degli exemplaad esaltazione del senso di amicizia profonda di chi ripone nell’amico la più ampia e costante fiducia anche quando le circostanze esterne cospirerebbero a fargli mutare parere.
E ancor meglio questo atteggiamento di cordiale, confidente trasporto verso gli amici si manifesta in modesti fatti di ogni giorno, nelle piccole premure, nei favori quasi banali, nella comprensione delle debolezze cui ognuno cede. E’ quando, ad esempio, egli scrive a Peucesta per rimproverarlo perché, assalito da un orso, aveva scritto ad altri, e non a lui; o quando scrive al medico Pausania, che intendeva somministrare l’elleboro al suo amico Cratero, manifestando la sua preoccupazione e nel contempo dando consigli sul come valersi di quella medicina; o quando, durante l’assedio di Tiro, muove contro gli Arabi che avevano sede presso i monti dell’Antilibano e rischia la vita per non abbandonare il suo pedagogo Lisimaco; o ancora quando perdona Euriloco di Egea, che per amore di una donna aveva cercato con l’inganno di tornare in patria. Uguale finezza di sentimenti e di comportamento emerge allorchè egli riconcilia Efestione e Cratero, due suoi intimi amici, segretamente gelosi uno dell’altro e spesso tra loro in dissenso aperto. Certo quando si legge che Alessandro, signore di un impero senza confini, aveva tempo per simili gentilezze, si rimane ancora oggi stupiti. Tuttavia secondo l’AnabasisAlexandri, redatta dallo storico greco Arriano nel II secolo, e secondo il pensiero dello studioso R. Del Santo, “la sua ambizione (di Alessandro) di andare oltre nasconde anche un carattere di egoista, di colui che non si accontenta, di colui che non ascoltava i consiglieri che gli ripetevano di fermarsi”, causa inevitabile della fine di un genio.